Anche per questo il sunsplash dà fastidio

mercoledì 26 agosto 2009

Superstiti

IL REPORTAGE. Il racconto di Titti e Hadengai due dei cinque sopravvissuti sul gommone maledetto.
Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all'Italia
di EZIO MAURO (Repubblica)

PALERMO - Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell'ospedale "Cervello". Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d'agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all'altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d'istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po' di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d'acqua. La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l'unica donna sopravvissuta - con altri quattro giovani uomini - sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese
di morte, di sete, di fame e di terrore.
Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d'immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna - una vergogna della democrazia - darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l'asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire
quell'Italia che cercavano, e incominciare a vivere.

Un'Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un'amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con "L'Aurora". In più, a casa la madre conservava
da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli
alberi. Tutti parlavano bene dell'Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i
biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando la bocciano a
scuola, l'undicesimo anno, e scatta l'arruolamento obbligatorio nell'esercito,
Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no? Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d'acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l'Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio
finale.

Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov'è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d'acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l'indirizzo mail, in modo che i
mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transfer, da qualche parte sicura.

Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si
parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno
messo da parte il pane e nemmeno l'acqua dalle porzioni razionate, non
sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c'è tempo, alle sei
bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla
spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e
le dune, forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente
porta dieci, dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque
donne. Non riescono a trovare spazio, c'è qualche tanica di benzina sotto i
piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio,
altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le
gambe. Ma ci siamo, è l'ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte
c'è l'Italia, Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che
arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei
che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno
scialle nero. Nient'altro.

"Adei", madre, sto andando, pensa senza dormire. "Amlak", dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c'è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d'uomini, ma non c'è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l'elica. Le donne si coprono la testa con gli
scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l'acqua sta
finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta,
facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera,
cinque, sei bocconi.

La notte fa più paura. Non c'è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.

All'inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l'ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: "Giù, giù, vai in mare, vai". Ma il settimo giorno i problemi cambiano.

Muore Haddish, che ha vent'anni, ed è il prino. Continua a vomitare da ventiquattr' ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. "Mai", acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete "mai" nella testa, c'è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. "E' arrivato - dice all'alba Ghenè - noi siamo in viaggio e lui è arrivato". I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono,
una donna canta una nenia sottovoce.

Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: "Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera". Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un
cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. "Meut", la morte, comincia a dominare
tutti i pensieri, riempie "semai", il cielo, verrà dal mare, "bahari". Le donne
si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la
nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del
gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi,
e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la
farà.

Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l'acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l'ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l'idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.

Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c'è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l'unica protezione dal freddo, l'unico cuscino, la coperta, l'unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l'ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c'è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po' nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.

L'acqua è un'ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t'importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l'incubo e comincia la realtà. Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d'uomini, tra le
minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi.

Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all'amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all'Italia, non sa dov'è, non la vuole. Non ha più
nessuna paura. Ripete a se stessa che dev'essere così in guerra, nelle
carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della
sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l'energia o la lucidità per
buttarti e lasciarti andare, affondare sott'acqua e sparire, ma vuoi che sia
finita. Persa l'Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un
viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si
separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte,
"Adei, Amlak, semai, bahari, meut". Rivede suo padre accovacciato, che fuma
contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la
parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all'improvviso, che c'è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione.

Dentro c'è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è
una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l'acqua l'anima comincia a
risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che
sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti
al sole. E' un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di
uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far
ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve
seguire.
Un giorno e una notte. Poi l'ultima barca. Questa volta li fanno
salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo,
Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato,
c'è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in
faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov'è. Che
importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi
per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore
delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti,
cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu.

Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d'acqua. Attorno non
muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara,
le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa
un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l'altro naufrago
ricoverato al "Cervello", Hadengai, in camera non c'è, l'hanno chiamato per una
radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino
ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano
sulle labbra gonfie, con l'altra mano, dove c'è un anello giallo alto e
sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha
paura che sapendo della sua fuga all'Asmara facciano qualcosa di brutto a sua
madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa
giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua
vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l'ha fatta, è arrivata. Non
ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po' di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell'Avis, la macchinetta al
pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di
riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto
della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po' più in là.

I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che
ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un
maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un'idea di che cosa sia davvero
l'Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra
l'ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c'è scritto "la vita è un bene
prezioso".
(26 agosto 2009)

venerdì 14 agosto 2009

I prolet e l'enalotto

Erano quasi le venti e le mescite frequentate dai prolet (le chiamavano pub) erano stracolme di avventori. Dalle luride porte a vento che si aprivano e si chiudevano di continuo, promanava un fetore di urina, segatura e birra acida. Nell'angolo formato da un ingresso che aggettava nella strada, vi erano tre uomini in piedi vicinissimi tra loro. Quello al centro aveva un giornale aperto davanti agli altri due, standogli alle spalle, sembravano leggere con estrema attenzione. Prima ancora di essere abbastanza vicino da poter notare le espressioni dei loro volti, Winston si accorse che da ogni fibra dei loro corpi traspariva una concentrazione assoluta e ne dedusse che stavano leggendo qualche notizia di importanza fondamentale. Era ormai a pochi passi da loro, quando il gruppetto si aprì e due di essi cominciarono a litigare furiosamente. Per un attimo sembrarono perfino sul punto di venire alle mani.
"Vuoi sentire o no che cazzo ti sto dicendo? Sto dicendo che negli ultimi 14 mesi non ha mai vinto uno col numero che finiva col 7."
"Ha vinto, ha vinto!"
"Ti dico di no! A casa tengo conservati tutti i risultati degli ultimi due anni, li tengo segnati su un foglio di carta. Te lo dico un'altra volta, un numero che finiva col sette non ha..."
"Una volta col sette ha vinto, ti posso dire anche che cazzo di numero era, finiva 407 ed era febbraio, la seconda settimana di febbraio."
"Ma che febbraio e febbraio! Tengo tutto scritto. Te lo dico un'altra volta, un numero..."
Stavano parlando della Lotteria. Dopo aver proseguito per altri 30 metri, Winston si voltò a guardarli. Discutevano ancora appassionatamente, i volti accesi dalla disputa. La Lotteria con le enormi cifre che corrispondeva settimanalmente, era il solo avvenimento pubblico per il quale i prolet nutrissero un serio interesse. In tutta probabilità vi erano milioni di prolet per i quali la Lotteria costituiva la principale, se non unica, ragione di vita. Per loro era una delizia, una felice follia, un conforto, uno stimolante. Quando era in ballo la Lotteria, anche persone che sapevano a malapena leggere e scrivere dimostravano di riuscire a fare calcoli complicatissimi e di possedere una memoria stupefacente. Vi era poi tutta una cricca di persone che si guadagnavano da vivere vendendo amuleti, sistemi per vincere e pronostici. Winston sapeva, come sapevano tutti i membri del Partito, che i premi erano per la gran parte immaginari. A essere pagate erano soltanto somme esigue, mentre i grossi premi erano attribuiti a persone inesistenti.


Tratto da "1984" di George Orwell scritto nel 1948.

lunedì 10 agosto 2009

il Canone all'ospedale

Eccomi di nuovo a parlare di ospedali. Proviamo un po' ad immaginarci questa scena: Siamo tre signore anziane stese su di un letto ventiquattr'ore al giorno; stanza completamente bianca, colazione alle 7, pranzo 11.30, cena 18.30; orario di visita dalle 15 alle 16 e dalle 19 alle 20, praticamente impossibile entrare ad altri orari. Domanda: Cosa fai tutto il giorno? Chiacchieri un poco, ti fai qualche pisolino, occhi per leggere ce ne sono pochi e poi... poi guardi il muro e vi trovi appeso un televisore, una quindicina di pollici. Pensi che almeno un po' te lo puoi passare il tempo, ma non hai fatto i conti col canone. Per guardare la tv servono due euro al giorno a stanza. Per accendere una tv del 15-18 e vedere i canali analogici due euro al giorno. Se facciamo un rapido calcolo sul mese si arriva a spendere 60 euro per stanza, manco un abbonamento a sky o mediaset premium, se poi facciamo un calcolo per ogni stanza scopriamo che le suore (l'ospedale i questione è della Chiesa) si raccimolano (o meglio potrebbero raccimolare, perchè non ho visto nessuno con la tv accesa) un bel gruzzoletto. Siamo arrivati a questo per ridurre i costi nelle strutture?

lunedì 3 agosto 2009

Si sa, in Italia va così

Vi voglio raccontare di un'altra bella questione a cui ho dovuto far fronte sia all'Ospedale all'Angelo che all'Ospedale convenzionato Villa Salus, entrambi siti in Mestre. Mia nonna, fra le tante magagne, ha una piaga ad un tallone ed un'altra all'anca. Ogni tre giorni viene a domicilio l'assistenza infermieristica per medicarla; gli operatori portano con sè tutto il necessario. Ogni quindici giorni deve poi andare, trasportata dalla Croce Verde, all'Ospedale all'Angelo per fare una visita di controllo dal medico che, per forza di cose, deve togliere la medicazione precedente e quindi applicarne una di nuova. Questo è avvenuto senza particolari problemi fino ad ora. Si perchè all'ultima visita il dottore è venuto a dirci che il materiale per la suddetta medicazione costa troppo all'ospedale e che quindi avremmo dovuto portare tutto il costosissimo materiale, garze, cerotti e pasta di Hoffman, da casa a nostre spese.
Ma passiamo al Villa Salus, dove mia nonna è ricoverata da una decina di giorni. Tra le varie medicine prescritte a mia nonna c'è un cerotto transdermico, che rilascia una sostanza un po' per volta; le è necessario per problemi cardiaci. Va cambiato ogni tre giorni e per ogni confezione ve ne sono all'interno tre. Venerdì uno degli infermieri mi dice che loro (l'Ospedale!) non erano in grado di rifornirsi di quel particolare cerotto e che avrei dovuto provvedere a portarli da casa. A casa però erano finiti quindi ho chiamato il medico di base per chiedere una ricetta da mandare in farmacia cosicchè potessi andare a prenderle. Dopo un'ora il mio medico mi chiama per dirmi che per legge non possono essere prescritti medicinali ad un paziente ricoverato in ospedale e che le sembrava incredibile che il Villa Salus non potesse contattare i suoi fornitori per fare un semplice ordine. Alla fine, grazie ad un piccolo escamotage, ma non vi posso dire quale, sono andato alla farmacia e sono riuscito ad entrare in possesso di questi benedetti cerotti. Domanda. Senza quell'escamotage, che non era per niente dovutomi dalla persona che mi ha aiutato, mia nonna sarebbe dovuta rimanere senza medicina? Qualcuno mi ha consigliato di scrivere ai giornali. Non l'ho fatto perchè non mi interessa che le persone dicano frasi tipo:"Ah beh siamo in Italia si sa che va così". Lo scrivo invece a voi, che direte più o meno la stessa cosa ma almeno non avrete speso i soldi del giornale.. Nel frattempo sto preparando le lenzuola, i piatti e anche qualche flebo, non si sa mai che non debba portare anche quelle. Buona vita a tutti.

Nuova chicca della Gazzetta dello Sport

Era da tanto che non beccavo la Gazzetta in una delle sue perfomance di orientamento dell'opinione pubblica, per dirla con le parole della Annunziata. All'apparenza può sembrare una cavolatina ma secondo me è indice di come questo giornale sportivo sia asservito ad una certa persona. Se si va sulle pagine della SerieA a sbirciare le carriere dei singoli giocatori scopriamo che vi sono differenziate le presenze nelle varie stagioni in base alla competizione a cui la squadra di club o nazionale ha partecipato. Quindi vi troviamo i campionati, le coppe di lega, le Champion's League, gli Europei, le Coppe America, fino ad arrivare ai Mondiali. E poi...e poi c'è un'altra voce che si può vedere soprattutto nei casellari dei giocatori che negli anni hanno militato nella Juventus e nel Milan, visto che prevalentemente sono state le squadre a giocarsi quest'ambitissima competizione: il Trofeo Berlusconi. Una coppetta di calcio estivo come tante altre (Pirelli, Moretti, Opel e chi più ne ha più ne metta) dedicata al papà di papi, Luigi Berlusconi. Siamo certi che ogni calciatore invecchiando racconterà ai nipotini di aver avuto l'onore di partecipare a questa sfida stellare invidiata da tutto il mondo. Complimenti ancora alla Gazzetta.